Investire a Dubai

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Cerchiamo di spiegare come mai Dubai attrae sempre di più capitali dall’estero investiti nel mercato immobiliare e perché sempre più investitori europei stanno prendendo la decisione di investire in questa fantastica città.

Solo nel 2017, 15 miliardi di dollaro sono stati investiti nel mercato immobiliare da investitori stranieri.

Il mercato immobiliare di Dubai costituisce un pilastro dell’economia del paese se si pensa che costituisce il 14% del PIL. Il 65% di tali investimenti proviene da capitali stranieri ed il 35% da cittadini del golfo.

  • Turismo sempre in crescita

Dubai è una delle più prestigiose e più visitate città al mondo.

Il turismo aumenta di anno in anno ed i livelli di hotel e servizi offerti ovviamente è sempre di altissimo livello.

  • EXPO 2020, Giubileo 2021 e Mondiali 2022

Altri tre eventi straordinari che rappresenteranno fonte di attrazione continua di capitali a Dubai.
Per la sola Expo 2020 si aspettano tra i 20 e i 30 milioni di visitatori.

  • Sole e possibilità di andare al mare tutto l’anno

Da ottobre a metà giugno il clima di Dubai può essere considerato perfetto per apprezzare al meglio il mare

  • Regime fiscale molto conveniente

Negli Emirati non sono previste imposte sul reddito delle persone fisiche (“personal income tax”).

A parte le banche estere e le società petrolifere, non sono previste imposte sulle plusvalenze, sul capitale e sui dividendi fra soci e di fatto non esiste una legislazione sulle tasse.

  • Prezzi competitivi

Anche considerando il livello di lusso ed di confort delle soluzioni abitative, il prezzo al metro quadro a Dubai è 10 volte più conveniente rispetto a capitali europee come Londra, New York e Parigi qualificando come migliore investimento immobiliare all’estero in questo momento.

Detto questo cosa aspettate ad investire in Dubai?

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Detrazione spesa agenzia immobiliare: come fare, quanto vale

detrazioni

 

Sia che si acquisti una casa sia che la si prenda in affitto, nel caso ci si rivolga ad una agenzia immobiliare è fondamentale sapere che vanno sostenute anche le spese per l‘intermediazione immobiliare da corrispondere appunto all’agenzia; tali spese possono essere detratte in sede di dichiarazione dei redditi, così come quelle notarili (se relative all’accensione di un contratto di mutuo per l’acquisto della casa).   Occorre però, innanzitutto, chiarire la differenza tra detrazione e deduzione che consiste nella modalità attraverso la quale i costi sostenuti dal contribuente vengono sottratti dall’ammontare di tasse da pagare.

Attraverso la deduzione fiscale i costi agiscono direttamente sul reddito imponibile del contribuente abbattendolo, mentre la detrazione agisce direttamente sull’imposta. Un esempio: ipotizziamo un reddito di 30mila euro sul quale applicare le deduzioni fiscali per un importo pari a 3mila euro: in questo caso il reddito imponibile ai fini del calcolo delle imposte non sarà di 30mila euro ma di 27mila euro; una volta determinate le imposte da pagare sulla scorta del reddito imponibile al netto delle deduzioni, sarà possibile applicare le detrazioni fiscali, ossia sottrarre dall’imposta da pagare i costi sostenuti per importi stabili e fissi predeterminati dal legislatore.

Per quanto concerne le spese sostenute per l’intermediazione immobiliare da parte dell’agenzia immobiliare queste possono essere sottratte dalle imposte che il contribuente è tenuto a pagare nella misura massima del 19% rispetto al totale delle spese ammissibili; poiché l’importo massimo che si può portare in detrazione come spesa ammissibile è di mille euro per ciascun anno, la detrazione sarà di un massimo di 190 euro.

Per la corretta determinazione della detraibilità degli oneri sostenuti per l’attività di intermediazione immobiliare bisogna tener presente che:

  • la detrazione dall’imposta lorda dei costi sostenuti per i compensi corrisposti all’agenzia di intermediazione immobiliare riguarda l’acquisto dell’unità immobiliare da adibire ad abitazione principale per un importo massimo di mille euro;
  • la detrazione fiscale spetta anche per l’acquisto di diritti reali minori (quale ad esempio l’usufrutto) ma alla condizione che l’immobile sia adibito ad abitazione principale;
  • per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente che non necessariamente corrisponde all’immobile acquistato con le agevolazioni “prima casa”.

Naturalmente la detrazione può essere fruita solo nel caso in cui l’acquisto dell’immobile sia concluso o, nel caso in cui si sia fatto un contratto preliminare, solo a condizione che questo sia stato regolarmente registrato. È fondamentale inoltre che l’agente sia iscritto al registro degli agenti immobiliari, ragione in più per fidarsi solo ed esclusivamente di professionisti.

Al fine di ottenere la detrazione, è necessario che il contribuente in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi sia in possesso dei seguenti documenti:

  • fattura emessa dall’agenzia immobiliare;
  • copia dell’atto notarile, relativo alla compravendita dell’immobile nel quale sono indicati: l’ammontare della spesa sostenuta per l’attività di mediazione; le modalità di pagamento della stessa; il numero di partita Iva o del codice fiscale dell’agente immobiliare.

Se un immobile è cointestato, allora le spese di agenzia dovranno essere ripartite in percentuale proporzionalmente rispetto alle quote di proprietà, la cosiddetta suddivisione pro-quota.

Agevolazioni come prima casa

 

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Quando si acquista un immobile, tra i costi da tenere in considerazione vi sono le imposte: quella di registro per il rogito, quella ipotecaria e catastale ed eventuale Iva le quali, grazie alle agevolazioni prima casa sono notevolmente ridotte, come di seguito evidenziato:

Se si acquista la prima casa da un privato o da un’impresa in esenzione Iva:

  • imposta di registro proporzionale nella misura del 2%
  • imposta ipotecaria 50 euro
  • imposta catastale 50 euro

Se si acquista la prima casa da un’impresa, con vendita soggetta a Iva:

  • Iva ridotta al 4%
  • imposta di registro 200 euro
  • imposta ipotecaria 200 euro
  • imposta catastale 200 euro

Affinché si possa beneficiare delle agevolazioni, l’immobile deve essere una prima casa e non unica casa o abitazione principale.

È possibile, infatti, avere già (o aver avuto) degli immobili di proprietà in altri Comuni e acquistare una casa in un Comune in cui si trasferisce per la prima volta la residenza, a condizione che:

  1. Non si possiedano nello stesso Comune, altri immobili idonei ad essere adibiti ad abitazione, neppure in comunione con il coniuge;
  2. Non si abbiano diritti di uso, usufrutto, abitazione su altri immobili nel medesimo Comune
  3. Non si sia già titolari, interamente o per quote, di un altro immobile su tutto il territorio nazionale, per il quale siano già state utilizzate le agevolazioni prima casa.

La prima casa, a sua volta, per poter rientrare nelle agevolazioni fiscali, deve appartenere ad una delle seguenti categorie catastali:

  • A/2     (abitazioni di tipo civile)
  • A/3     (abitazioni di tipo economico)
  • A/4     (abitazioni di tipo popolare)
  • A/5     (abitazioni di tipo ultra popolare)
  • A/6     (abitazioni di tipo rurale)
  • A/7     (abitazioni in villini)
  • A/11   (abitazioni e alloggi tipici dei luoghi)

Le agevolazioni “prima casa” non sono ammesse, infatti, per l’acquisto di un’abitazione di lusso appartenente alle categorie catastali A/1 (abitazioni di tipo signorile),  A/8 (abitazioni in ville) e A/9 (castelli e palazzi di eminenti pregi artistici e storici).

La legge richiede che l’abitazione da acquistare con le agevolazioni prima casa si trovi nel territorio del Comune in cui l’acquirente ha la propria residenza; se l’acquirente risiede in altro Comune, deve trasferire la residenza in quello dove è situato l’immobile, entro e non oltre 18 mesi dall’acquisto (pena il decadere dell’agevolazione fiscale ed il conseguente versamento delle maggiori imposte non pagate, oltre alle sanzioni irrogate dal Fisco).

Inoltre, la dichiarazione relativa al cambio di residenza deve essere contenuta, a pena di decadenza, nell’atto di acquisto ed il cambio di residenza si considera avvenuto nella data in cui l’interessato presenta al Comune la dichiarazione di trasferimento.

In alternativa al requisito della residenza, la legge prevede comunque l’applicazione dei benefici prima casa se questa si trova:

  • nel territorio del Comune in cui l’acquirente svolge la propria attività (anche se svolta senza remunerazione, come, per esempio, per le attività di studio, di volontariato, sportive);
  • nel territorio del Comune in cui ha sede o esercita l’attività il proprio datore di lavoro, se l’acquirente si è dovuto trasferire all’estero per ragioni di lavoro;
  • nell’intero territorio nazionale, purché l’immobile sia acquisito come “prima casa” sul territorio italiano, se l’acquirente è un cittadino italiano emigrato all’estero,  la cui condizione può essere documentata attraverso il certificato di iscrizione all’Aire o autocertificata con dichiarazione nell’atto di acquisto.

Bisogna tener presente inoltre che se l’immobile precedente viene venduto prima di cinque anni dall’acquisto, si decade definitivamente dalle agevolazioni fiscali a meno che non si riacquisti entro un anno una nuova abitazione, anche a titolo gratuito (per esempio per successione ereditaria).

 

In caso di:

  • mendacità delle dichiarazioni previste dalla legge rese in sede di registrazione dell’atto;
  • mancato trasferimento della residenza nel comune ove è ubicato l’immobile entro 18 mesi dell’acquisto (fatta eccezione per il personale Forze armate e delle Forze di polizia in quanto per tali soggetti, in virtù dei periodici cambiamenti della sede di lavoro, non è richiesta la condizione della residenza nel comune ove sorge l’unità abitativa);
  • se l’abitazione è venduta o donata prima che siano trascorsi 5 anni dalla data di acquisto, a meno che, entro un anno, non si riacquista un altro immobile, anche a titolo gratuito, da adibire ad abitazione principale,

si incorre nella decadenza delle agevolazioni “prima casa”.

 

Accatastamento immobili: cos’è e quando è obbligatorio

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In caso di nuova costruzione o di interventi sull’immobile già esistente che comportino una variazione della consistenza o del classamento (per esempio nuova divisione dell’unità immobiliare o di fusione tra due appartamenti o di cambio di destinazione d’uso), è obbligatorio l’accatastamento dell’immobile o comunque l’aggiornamento dei dati catastali. L’omesso accatastamento oppure il mancato aggiornamento dei dati catastali, comporta l’applicazione di sanzioni amministrative da parte dell’Agenzia delle Entrate. L’accatastamento consiste nel censimento di un immobile, necessario ai fini fiscali (per esempio per il calcolo dell’Imu), grazie al quale a ciascun immobile viene assegnata una specifica categoria.                             La categoria catastale dipende dalla destinazione propria risultante dalle caratteristiche tecnico-fisiche dell’immobile rinvenibili nelle cosiddette “Unità tipo” di riferimento. Queste ultime definiscono, su base locale, l’unità immobiliare di comparazione per le attività catastali di classamento, cioè per l’attribuzione della corretta categoria e classe catastale agli immobili censiti in catasto.

 

 

La dichiarazione Docfa (documenti catasto fabbricati), che contiene i dati descrittivi e tecnici dell’immobile, deve essere presentata per :

  • le unità immobiliari urbane di nuova costruzione (accatastamento);
  • le variazioni dello stato, consistenza e destinazione delle unità immobiliari urbane censite (frazionamento o fusione immobili, ampliamento, riduzione, cambio di destinazione d’uso, cambio distribuzione spazi interni unità immobiliare ecc.);
  • le unità afferenti edificate su area urbana, in sopraelevazione o su aree di corte;
  • o beni immobili non produttivi di reddito urbano, ivi compresi i beni comuni, e relative variazioni.

La dichiarazione, obbligatoria per gli intestatari dell’immobile, avviene con la presentazione all’Agenzia di un atto di aggiornamento predisposto da un professionista tecnico abilitato (architetto, ingegnere, geometra…).                     Il termine di presentazione delle dichiarazioni al catasto è fissato in trenta giorni dal momento in cui i fabbricati sono divenuti abitabili o servibili all’uso cui sono destinati o comunque decorrenti dalla data di ultimazione della variazione nello stato per le unità immobiliari già censite. In caso di tardiva presentazione, si applicano le sanzioni pecuniarie secondo le normative vigenti.                                                 L’Agenzia effettua i controlli sulla dichiarazione presentata ai fini della registrazione in banca dati del documento di aggiornamento e attiva successivamente eventuali controlli di merito. Se questi ultimi conducono a rettifiche d’ufficio le stesse sono iscritte in banca dati e poi notificate ai soggetti intestatari.                   Contro gli accertamenti è possibile presentare ricorso alla Commissione tributaria Provinciale competente per territorio, entro 60 giorni dalla notifica.

Imu, come contestare una richiesta di pagamento

Imu è l’acronimo di Imposta Municipale Unica: più comunemente conosciuta come tassa sulla casa, è dovuta sul patrimonio immobiliare. Viene solitamente determinata in base alla rendita catastale dell’immobile, applicando un’ aliquota stabilita da ogni Comune.

 

Il contribuente che riceve un avviso di accertamento per l’Imu, ha a disposizione i seguenti mezzi di tutela:

  • definizione agevolata;
  • istanza di autotutela;
  • accertamento con adesione;
  • ricorso in Commissione Tributaria.

La definizione agevolata si ha quando il contribuente decide di pagare l’importo contestato entro 60 giorni, rinunciando contestualmente al ricorso, ottenendo, in tal modo, la riduzione a un terzo delle sanzioni applicate. Si comprende che, poiché essa implica la rinuncia al ricorso e a ogni forma di contestazione, è consigliabile solo nel caso in cui l’avviso di accertamento sia fondato e legittimo sotto ogni aspetto, compresa la procedura di notifica.

Se nell’avviso di accertamento il contribuente riscontra errori o, comunque, motivi di illegittimità facilmente dimostrabili (ad esempio, nel caso di pagamento già effettuato), può inviare al Comune la cosiddetta istanza di autotutela, con cui chiedere formalmente l’annullamento e/o la rettifica totale o parziale dell’avviso di accertamento.

 

Al suo interno, occorre indicare:

  • l’atto di cui viene chiesto l’annullamento (totale o parziale);
  • i motivi per cui si ritiene tale atto illegittimo e, quindi, annullabile, documentandoli opportunamente .

Questo strumento non determina alcuna sospensione né interruzione dei termini per proporre ricorso in Commissione Tributaria.

 

Lo strumento dell’accertamento con adesione si può utilizzare solo per gli avvisi di accertamento per omessa o infedele dichiarazione. In pratica, quando l’accertamento si basa su elementi non del tutto certi e che possono essere valutati diversamente: il contribuente, infatti, chiede all’ufficio competente di rivedere la valutazione degli oggetti presenti nell’avviso di accertamento e di ricalcolare l’importo dovuto, i relativi interessi e le sanzioni.

Il risultato di tale richiesta sarà la sospensione dei termini per l’impugnazione e quelli di pagamento del tributo per un periodo di 90 giorni dalla data di presentazione. Entro 15 giorni dal ricevimento dell’accertamento con adesione, il contribuente viene contattato per concordare un incontro durante il quale potranno essere effettuati tutti gli approfondimenti del caso. Se le parti riescono a trovare un accordo, viene redatto un atto di accertamento con adesione in duplice copia che va sottoscritto dal contribuente (o dal suo procuratore) e dal responsabile dell’ufficio o suo delegato. In tal modo, si applicherà la sanzione pari ad un quarto del minimo previsto dalla relativa normativa.Se, invece, non si raggiunge l’accordo o nel caso in cui il contribuente non si presenti all’incontro, decade il diritto all’accertamento con adesione.

L’ultimo strumento a difesa del contribuente è la presentazione di un ricorso in Commissione Tributaria Provinciale, entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (salva la sospensione di 90 giorni se è stato richiesto l’accertamento con adesione, nonchè la sospensione feriale dal 1 agosto al 15 settembre), eccependo ogni vizio, formale e di merito, relativo all’avviso di accertamento, indipendentemente dalla violazione contestata.

Coworking: come guadagnare o risparmiare sull’ufficio

Cos’è, come funziona il coworking e come è possibile guadagnare o risparmiare sui costi dell’ufficio

coworking

Disponi di un ufficio che si compone di diverse stanze e postazioni: molte di queste sono vuote e magari hai anche una sala riunioni che non usi tutti i giorni.

Hai mai pensato di tagliare i costi? Ti trovi, viceversa, nella situazione opposta: sei un professionista, ma non hai un ufficio e non disponi di un ambiente lavorativo confortevole a causa dei costi che questo comporterebbe (soprattutto ad inizio carriera). Hai mai pensato al coworking? Se ti trovi in una delle due situazioni descritte, il coworking potrebbe rappresentare un’ottima soluzione per guadagnare e risparmiare sull’ufficio. Il coworking, infatti, nasce dall’esigenza di tagliare i costi derivanti da un ufficio permanente, condividendone gli spazi con altri professionisti. Vediamo, dunque, cos’è, come funziona il coworking e come è possibile guadagnare o risparmiare sui costi dell’ufficio.
Coworking: cos’è
Con il contratto di coworking un soggetto (il c.d. concedente) mette a disposizione uno spazio di lavoro attrezzato ad un altro soggetto (il c.d. utilizzatore), che potrà così usufruire di un ambiente confortevole e funzionale dove svolgere la propria attività lavorativa.Nel contratto di coworking, dunque, vengono in rilievo essenzialmente due parti:

– il concedente, e cioè una persona fisica o una società, proprietaria di un immobile a uso commerciale, appositamente strutturato in modo da creare diverse postazioni per ufficio, sia divise sia in open space;
– L’utilizzatore, impersonificato solitamente da un lavoratore che svolge una professione intellettuale (avvocato, commercialista, architetto, grafico, agente di commercio, pubblicitario, ecc.) che intende usufruire di una postazione lavorativa essenziale e temporanea, ma fornita di attrezzature quali scanner, stampanti, connessioni internet.
Coworking: come guadagnare o risparmiare sull’ufficio
– Il concedente, a fronte della messa a disposizione del proprio ufficio, riceverà dei canoni di modo da rendere remunerativa la propria attività. Il contratto, dunque, deve indicare espressamente il canone che l’utilizzatore dovrà corrispondere al concedente. È bene, inoltre, che il contratto indichi con chiarezza quali servizi sono compresi, elencando per i servizi non compresi (ad esempio, fotocopiatrice, sala riunioni, ecc.) i costi da corrispondere di volta in volta, in base al concreto utilizzo.
– L’utilizzatore potrà godere, per un tempo prestabilito, di una postazione di lavoro, senza dover sostenere i costi per l’acquisto o la locazione di un ufficio.
La postazione di lavoro deve essere descritta con precisione, così come le attrezzature che vengono date in uso. Possono essere previste diverse tipologie di postazioni, dalle più economiche (come, ad esempio, una semplice scrivania fornita di una sedia, una lampada, alcune prese di corrente) fino alle più confortevoli e dotate di maggiore privacy (si pensi ad una stanza riservata con attrezzatura d’ufficio completa).
Il coworking prevede anche la possibilità di utilizzare una connessione internet, uno scanner, le stampanti presenti negli ambienti. Per questi servizi può essere richiesto un prezzo forfettario, compreso nel canone, oppure a consumo. Spesso l’immobile è dotato di una o più sale riunioni, che il professionista può prenotare (con anticipo) se ne ha bisogno. Il costo viene di solito conteggiato a parte, in base alle ore di effettiva occupazione.

Coworking: quali vantaggi
Il contratto di coworking si rivolge essenzialmente a professionisti che non dispongono di un proprio ufficio (spesso a causa dei costi che questo comporta). Con il coworking essi potranno usufruire di uno “spazio attrezzato” per svolgere la propria attività professionale, senza dover anticipare i costi per il suo approntamento e risparmiando in termini di canoni locatizi. Anche chi mette a disposizione uno spazio lavorativo attrezzato riceverà non indifferenti vantaggi economici, medianti i quali potrà, ad esempio, abbattere i costi del proprio ufficio ed investire maggiormente sulla propria professionalità.
Il coworking, inoltre, favorisce la collaborazione tra professionisti poiché offre l’importante vantaggio di lavorare in un ambiente ove normalmente svolgono la propria attività anche altri professionisti, con i quali è possibile interagire. Con il coworking, dunque, si viene spesso a creare un ambiente ricco e dinamico che spesso porta alla nascita di progetti integrati, di collaborazioni ed allo scambio dei clienti, a continui stimoli di crescita personali e professionali.

Prezzo della vendita al notaio: cosa cambia?

Prezzo della vendita al notaio: cosa cambia?

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Il 29 agosto scorso è entrata in vigore la legge sulla concorrenza e sul mercato . Tra le tante novità introdotte vi è quella concernente la possibilità per il venditore e l’acquirente di consegnare in deposito al notaio il prezzo della compravendita.  Tale previsione sicuramente rende più certi gli acquisti e più “al sicuro” le somme (detenute appunto dal notaio). Ma un interrogativo sorge spontaneo: la previsione in commento vale solo per le compravendite future o anche per quelle stipulate in passato? Il prezzo della vendita affidato al notaio vale anche per gli accordi precedenti o solo per quelli futuri? A tanto cercheremo di rispondere con il presente articolo. Prima, però, facciamo il punto della situazione.

La recente legge prevede che il notaio – d’ora in poi – avrà l’obbligo di possedere un conto corrente “dedicato” ai propri clienti, sul quale cioè far confluire il denaro ricevuto dagli stessi. Non tutto il denaro che il notaio riceve dai propri clienti dovrà confluire nel conto corrente dedicato. Per intenderci, la parcella del professionista non confluirà nel predetto conto.

Vi dovranno essere depositate:

le somme consegnate al notaio con finalità di pagamento dei tributi;

le somme che il notaio è incaricato di custodire e di tenere in deposito.

 

A tale ultimo proposito è bene precisare che, in tema di compravendita,  se ne sia richiesto da almeno una delle parti (acquirente o venditore), il notaio dovrà (e non può rifiutarsi di farlo) tenere in deposito il prezzo che l’acquirente dovrà corrispondere al venditore fino a quando la compravendita non si sia perfezionata e il relativo acquisto sia diventato certo e definitivo. Con tale previsione il ruolo di garanzia del notaio negli atti di compravendita viene notevolmente rafforzato. Si tratta di una riforma che garantisce la correttezza delle procedure e aumenta l’attendibilità del processo di compravendita. Un interrogativo, però, sorge spontaneo: la previsione in commento vale solo per le compravendite future oppure potrà applicarsi anche ai contratti preliminari di vendita stipulati prima del 29 agosto scorso (data in cui, come detto, è entrata in vigore la legge sulla concorrenza)? Il prezzo della vendita affidato al notaio vale anche per gli accordi precedenti? Il prezzo della vendita affidato al notaio vale anche per gli accordi precedenti?

Tale interrogativo non ha solo rilevanza teorica, ma avrà evidenti ripercussioni nella realtà. Ed infatti, sicuramente sorgeranno dei conflitti tra gli acquirenti che chiederanno il deposito del prezzo al notaio e i venditori che sosterranno l’inapplicabilità retroattiva delle nuove norme alle contrattazioni nate prima della legge. Chi avrà ragione?

Trattandosi di una norma posta a tutela della parte acquirente, sarà questa che avrà interesse a chiedere che il prezzo sia consegnato in deposito al notaio anziché essere versato immediatamente al venditore. Il deposito del prezzo, infatti, è destinato a tutelare l’acquirente contro la possibilità che, prima della trascrizione dell’atto di compravendita, sia trascritto contro il venditore un altro atto dispositivo dell’immobile, oppure sia trascritta o iscritta un’altra formalità pregiudizievole, come per esempio un’ipoteca o un pignoramento. Le norme sul deposito del prezzo, dunque, consentono all’acquirente di tutelarsi contro questa possibilità, ma rimettono a lui la scelta se avvalersene o meno. La decisione se richiedere o meno che il prezzo sia depositato al notaio spetta dunque alla parte acquirente (essendo poco probabile che tale richiesta provenga dal venditore). Ma tale richiesta potrà essere effettuata anche per gli accordi precedenti all’entrata in vigore della legge sulla concorrenza?

Al riguardo, tutti sanno che la legge non si applica se non per il futuro. Ed infatti le disposizioni sulla legge in generale , stabiliscono che la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Se ciò è vero, però, è anche vero che quando una legge impatta su un rapporto che dura nel tempo, inevitabilmente si applicherà anche a esso (se Tizio e Caia si sposano in assenza di una legge sul divorzio, che poi entra in vigore, potranno certamente poter divorziare anch’essi). Si ritiene dunque che le norme su deposito del prezzo di vendita ben potrebbero esser fatte valere anche per i contratti preliminari di vendita stipulati prima del 29 agosto scorso.

Riduzione canone d’affitto: va comunicata all’Agenzia delle Entrate?

Nel caso in cui all’inquilino cui è stato affittato un appartamento venga concessa una riduzione del canone mensile sarebbe necessario provvedere ad una comunicazione per variazione del contratto all’Agenzia delle Entrate?

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Per rispondere in modo completo al quesito posto occorre, in primo luogo, sottolineare come, stando all’orientamento giurisprudenziale prevalente, la modifica (in aumento o in diminuzione) del canone di locazione non configura un nuovo contratto ma semplicemente la rettifica di un elemento, peraltro qualificato come accessorio e non essenziale dell’obbligazione. Di conseguenza, non si concretizza la necessità di stipulare un nuovo atto di locazione, con nuova data di decorrenza e nuove scadenze. Ciò vuol dire che il contratto originario non perde la sua validità e, di conseguenza, se la durata del contratto è di 4 anni + 4 anni di rinnovo automatico, tale termine non ricomincia a decorrere da capo solo perchè le parti hanno modificato il canone di locazione. Poichè però il contratto di locazione deve sempre essere redatto in forma scritta, anche tutti i successivi accordi di modifica o integrativi della pattuizione originaria devono essere redatti per iscritto e firmati dalle parti. L’accordo volto a modificare il canone potrà essere redatto senza formule particolari, purchè richiami gli estremi del contratto di locazione cui si riferisce (soggetti, immobile, data di redazione e di registrazione).

Per quanto riguarda la necessità di procedere a comunicare l’accordo modificativo del contratto all’Agenzia delle Entrate, la questione è stata trattata dall’Agenzia stessa con una Risoluzione del 2010. Nel citato documento di prassi l’Agenzia ha provveduto a chiarire che, nel caso in cui le parti del contratto di locazione pattuiscano la riduzione del canone inizialmente previsto, tale accordo non  consistendo in un evento che comporti “ulteriore liquidazione dell’imposta”, non deve essere obbligatoriamente comunicato all’Agenzia delle Entrate (a meno che non sia stipulato in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata).

Il perfezionamento dell’accordo di riduzione del canone, però, determina di fatto la diminuzione della base imponibile ai fini delle imposte dirette e conseguentemente la corresponsione di una minore imposta: sorge quindi l’opportunità operativa di registrare l’atto di modifica contrattuale, con l’apposizione della data certa di fronte ai terzi. Su tale fattispecie è intervenuto il legislatore che ha esentato dall’assoggettamento a imposta di registro e ad imposta di bollo le registrazioni degli accordi con i quali locatore e locatario dispongono la riduzione dei canoni di un contratto di locazione immobiliare in essere.

Caparra: cos’è e come funziona

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Se una parte non rispetta il contratto, l’altra può trattenere la caparra o esigere il doppio della stessa. Vediamo come funziona questo meccanismo

Può capitare che, dopo la stipula di un contratto, una delle parti non rispetti i propri obblighi e si riveli, dunque, inadempiente. Per fortuna, il nostro ordinamento fornisce una serie di rimedi nei confronti di chi, invece, tenga “fede” agli impegni assunti. Tra questi, particolarmente efficace è il meccanismo della caparra. Cerchiamo, dunque, di comprendere cos’è la caparra, come funziona il meccanismo della caparra e perché essa è correlata al c.d. recesso anticipato.

Cos’è la caparra?

La caparra consiste in una somma di denaro (o in una quantità di cose fungibili) che una parte consegna all’altra. La caparra ha anzitutto funzione confirmatoria. Ed infatti, per quanto la firma di un contratto possa ritenersi una garanzia (atteso che «scripta manent»), non c’è dubbio che la consegna di  qualcosa di “concreto”, dia comunque più certezze e conferme (da qui il nome di caparra confirmatoria [1]). La caparra confirmatoria consiste, dunque, nella materiale dazione di una somma di denaro o di altre cose fungibili, in considerazione di un possibile inadempimento o, meglio, di una mancata esecuzione del contratto che le parti intendono stipulare. In termini semplici, ciò che si dà a titolo di caparra rappresenta una sorta di “conferma” dell’accordo o del contratto. Se poi, il contratto viene adempiuto, la caparra sarà calcolata come un anticipo della prestazione, e cioè come un principio di pagamento. Ma qual è la funzione della caparra nel caso in cui una delle parti non dovesse adempiere ai propri obblighi?

Caparra: a cosa serve?

Per comprendere qual è la funzione della caparra in caso di inadempimento facciamo un esempio. Poniamo che Tizio e Caio abbiano stipulato un contratto preliminare di compravendita e che Caio, dunque, abbia promesso di comprare da Tizio un immobile, consegnandogli – a conferma dell’accordo – una caparra.

 

Successivamente, però, uno dei due non rispetta gli accordi presi. Cosa succede? Analizziamo entrambe le ipotesi :

  • Se ad essere inadempiente è la parte che ha consegnato la caparra, allora l’altra parte potrà decidere di recedere dal contratto e avrà inoltre il diritto di trattenere la caparra.
  • Se invece a risultare inadempiente è colui che aveva ricevuto la caparra, allora l’altra parte potrà parimenti recedere dal contratto e avrà, inoltre, il diritto di esigere il doppio della caparra.

Ricapitolando, dunque, in caso di inadempimento del contratto, alla parte non inadempiente è riconosciuta a seconda delle due ipotesi esaminate – la possibilità di trattenere la caparra o di esigere il doppio di quella prestata. Il meccanismo descritto, però, non rappresenta l’unica soluzione offerta alla “parte diligente” nei confronti dell’altra. La parte adempiente, infatti, potrà decidere anche di percorrere altre strade.

Qualora una delle parti non abbia rispettato gli impegni presi con il contratto, l’altra parte – ove lo preferisca – può anche scegliere di non recedere dal contratto, chiedendo:

  • l’esecuzione o la risoluzione del contratto;
  • il diritto al risarcimento del danno.

Negozio in affitto e indennità per la perdita dell’avviamento

centrocasa novembre

Negozio in affitto: ecco quando spetta l’indennità per la perdita dell’avviamento a seguito della fine del contratto di locazione

L’avviamento commerciale – come noto – è la capacità dell’impresa di produrre profitto. Tale capacità dipende da numerosi fattori: uno tra questi è certamente la collocazione territoriale. Ed infatti, è ovvio che un negozio situato nel centro di una grande città avrà – almeno “sulla carta” – maggiori possibilità di produrre profitto, rispetto ad un’attività commerciale situata nelle periferie di un piccolo paesino. In considerazione di questa circostanza, il legislatore ha previsto una serie di tutele per l’imprenditore che conduca in locazione un immobile ad uso commerciale, nel caso in cui la locazione cessi per volontà del locatore ed il conduttore sia costretto a trasferire altrove l’attività. Cosa succederà in tali ipotesi? Cosa succede se il titolare di un negozio in affitto sia costretto a trasferire altrove la sua attività? Certamente, in tali ipotesi si verificherà una perdita dell’avviamento commerciale: il titolare del negozio avrà, dunque, diritto ad un “risarcimento”.

Più precisamente, se l’imprenditore – che aveva preso in affitto un negozio – è costretto a spostare la propria attività commerciale altrove a causa della cessazione del contratto di locazione, questi avrà diritto ad un’indennità (c.d. indennità per la perdita dell’avviamento). In particolare, la legge prevede che nel caso di locazione finita per volontà del locatore, questi deve versare al conduttore 18 mensilità dell’ultimo canone corrisposto a titolo di indennità.

 

Indennità per la perdita dell’avviamento: cos’è?

Cerchiamo di comprendere meglio la natura e le finalità della tutela indennitaria prevista dalla legge. L’”indennità per la perdita di avviamento” è dovuta per il solo fatto che il proprietario non intenda più proseguire la locazione e spetta al conduttore per il solo fatto che nell’immobile vi è stata per lungo tempo esercitata un’attività produttiva che sia diventata, così, un punto di riferimento per la clientela. Detta indennità, dunque, è finalizzata a predeterminare il danno che il conduttore subirà per il cambio di sede dell’attività a causa dello scioglimento del contratto di locazione. Allo stesso tempo, l’indennità ha l’obiettivo di sostenere l’imprenditore nella ricerca del nuovo locale in cui poter proseguire la sua attività.In sostanza, il diritto all’indennità per la perdita dell’avviamento presuppone:

  • l’esistenza di un contratto di locazione ad uso diverso da quello abitativo;
  • la cessazione di tale contratto per disdetta del locatore e non per recesso od inadempimento del conduttore. Si tenga presente che, secondo un orientamento della Cassazione [2], anche la risoluzione consensuale del contratto di locazione escluderebbe il diritto del conduttore ad ottenere l’indennità per la perdita dell’avviamento.

 

Perdita dell’avviamento: vale per tutti i negozi?

Relativamente alla tipologia di negozi e attività commerciali cui è riconosciuto il diritto all’indennità bisogna compiere delle ulteriori precisazioni, atteso che la legge espressamente lo esclude per taluni immobili. In particolare, l’indennità non è dovuta nel caso in cui la cessazione del rapporto di locazione riguarda immobili utilizzati per lo svolgimento di attività che non comportano contatti diretti con il pubblico o di carattere transitorio o, ancora, immobili situati all’interno di stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio, alberghi e villaggi turistici. In assenza di una esplicita previsione di legge, inoltre, sono sorti dei dubbi sul diritto all’indennità nel caso di negozio situato all’interno di un centro commerciale. In questa ipotesi, infatti, le incertezze derivano dalla difficoltà di stabilire se la clientela (e dunque l’avviamento) è il frutto dell’attività posta in essere dal conduttore del singolo negozio, oppure sia il risultato della collocazione dell’attività all’interno di una struttura più ampia (e cioè il centro commerciale).